Vi segnalo un’interessante articolo (in versione originale) tratto dalla rubrica culturale di Repubblica Napoli, scritto da Antonella di Nocera, direttore Arci Movie e Membro della Presidenza Nazionale dell’Unione Circoli del cinema Arci.
E’importante che si sia aperta una discussione pubblica sulle politiche e sul finanziamento della cultura in Campania. In tempi di crisi economica la prima questione diventa inevitabilmente l’uso appropriato delle risorse pubbliche per l’industria culturale (con i suoi riflessi su quella del turismo e sugli altri settori produttivi). Su un punto mi sembra si registri una certa unanimità di giudizio: negli ultimi anni, insieme ad alcune importanti e lungimiranti operazioni come il restauro del San Carlo o l’istituzione della Film Commission, si è affermata un’idea quantomeno discutibile degli investimenti pubblici per la cultura; un’idea che ha portato Regione, Comuni e Province a ben note aberrazioni come quella di finanziare con fondi strutturali europei sagre e spettacoli di piazza. Come operatrice sociale e culturale assillata dall’imperativo di investire tutto sulle persone e sui processi, sono la prima a sostenere che i tagli in questo caso sono benvenuti.
Parlo del mio settore. Com’è possibile che in una Regione con una storia come la nostra, con le intelligenze e i talenti che vanta, non si sia creata una grande scuola pubblica per il cinema e il teatro, dove i nostri grandi maestri possono dialogare con le nuove generazioni, dove anche chi non ha alle spalle risorse familiari può emergere? Come si spiega che non si è mai istituita la cineteca regionale di cui si parla da anni; che non è stata approvata una legge sul cinema per il sostegno stabile alla produzione e alla promozione della cultura cinematografica?
Una “buona amministrazione” delle politiche culturali deve saper riscoprire le vocazioni territoriali e privilegiare tutto ciò che “dà struttura” e valorizza le esperienze e le competenze. Costruire “case della cultura” nelle città e nei quartieri creando reti efficienti tra istituzioni locali e operatori, stabilendo obiettivi in termini di qualità, di continuità, di ricadute sui principali indicatori sociali: mediateche, centri multidisciplinari, laboratori creativi aperti. Solo in questo modo si crea un sistema virtuoso e gli investimenti europei trovano la loro più naturale collocazione: “aiuti finanziari” con cui creare sviluppo e progresso civile.
I nodi decisivi sono tre: la razionalizzazione e la selezione dei progetti; la programmazione e il controllo sull’utilizzo delle risorse pubbliche; il partenariato con i privati.
Razionalizzare e selezionare per me vuol dire – ad esempio – che su 40 festival di cinema la Regione Campania deve sapere e dover dire in maniera trasparente e motivata quali sono i pochi da finanziare totalmente o parzialmente (a precise condizioni e sotto uno stretto controllo amministrativo). Significa anche sostenere le iniziative e gli enti in modo congruo ed equilibrato: finanziare iniziative in modo spropositato istiga allo spreco (la ridondanza dei poster giganti che annunciano eventi estivi-fotocopia è semplicemente una offesa al buon senso), mentre lesinare risorse altrove scatena tristi guerre tra poveri e soprattutto tarpa le ali a progetti innovativi.
Proprio perché credo fermamente nella cultura come leva per lo sviluppo economico oltre che sociale, considero folle – ad esempio – concedere milioni di euro pubblici a kermesse pseudo-hollywoodiane a Capri o Ischia (senza alcuna ricaduta per il territorio, anche sul piano turistico), mentre non si fa nulla per promuovere un vero circuito per l’educazione e la produzione audiovisiva delle nuove generazioni, capace di generare micro-progetti imprenditoriali, reti di competenze e sinergie con scuola, università, media. Un discorso analogo rischia di valere anche per grandi eventi, importanti e da realizzare, come il Festival Teatro Italia o il Forum delle Culture se non avvertono come decisivo il concetto di sedimentazione, a partire dal coinvolgimento effettivo di un tessuto sociale miracolosamente ancora vivo, di una comunità complessa, irriducibile alla nozione di “spettatore” (peraltro, nel caso specifico, spesso e volentieri non pagante…).
Sulla programmazione dell’intervento pubblico, l’assessore Miraglia ha opportunamente dichiarato di voler dare attuazione alla recente legge regionale che, per quanto migliorabile, rappresenta una buona piattaforma di lavoro. Speriamo che in questo caso alle parole corrispondano i fatti, perché è scandaloso quanto è avvenuto in passato, quando la “politica culturale” della Regione Campania veniva decisa a volte con singoli provvedimenti di spesa, assegnando contributi in maniera scoordinata e in base a criteri politici.
Anche il controllo dei flussi finanziari deve avere un ruolo centrale nelle politiche culturali pubbliche: competenze e risorse umane adeguate nella Regione Campania ci sono e non esiste alcun ostacolo – se non di tipo politico – a dotare l’amministrazione di un efficiente sistema di valutazione, accompagnamento e verifica sugli enti destinatari di sovvenzioni regionali. Quanto all’assenza nella nostra realtà di professionalità che integrino conoscenze nel settore culturale con competenze manageriali, denunciata dal Prof. De Masi, mi permetto di dissentire: è vero che spesso mancano le persone giuste nei posti giusti, ma questo non è altro che il frutto avvelenato del metodo familistico e clientelare che domina le nostre relazioni professionali (non solo in ambito pubblico); lo dimostrano i tanti giovani e meno giovani napoletani che in questo campo si fanno strada in Italia e all’estero.
Infine, mi piacerebbe che il dibattito sul contributo dei privati alla cultura – lo dico da persona convinta della indispensabilità e opportunità dell’intervento pubblico – fosse emendato da discorsi di tipo ideologico, perché è comunque fondamentale che gli enti culturali diversifichino le fonti di finanziamento e siano in grado di competere per contenuti e progettualità. Proviamo a rovesciare il discorso: una pluralità di finanziatori – pubblici o privati che siano – induce sempre un maggiore rigore e trasparenza nella gestione; sarebbe buona regola che chi si occupa di attività culturali – soprattutto in congiunture come quella che viviamo – non si adagiasse mai su confortevoli budget garantiti, e si dotasse di strumenti efficaci e universali di accountability, mettendosi sempre in gioco.
Guardando alla mia esperienza, se in una realtà come quella di Ponticelli, marginale in termini di mercato e di visibilità, un piccolo ente no-profit come il nostro, grazie all’intesa con un imprenditore privato e senza la garanzia di un sostegno pubblico, è riuscito a salvare e far vivere da venti anni l’ultima sala cinematografica storica di tutta la periferia napoletana, il Pierrot; se i nostri Laboratori educativi si svolgono ogni giorno, da 10 anni, in sedi comunali sottratte faticosamente al degrado in sinergia con il Comune e la Municipalità; se una semplice associazione di promozione culturale, grazie a competenze messe a disposizione in maniera quasi del tutto gratuita, considera normale approvare ogni anno un bilancio sociale (cosa purtroppo rara dalle nostre parti), è abbastanza plausibile affermare che anche qui, nel cuore del Mezzogiorno, il tema del rapporto pubblico-privato nelle attività culturali può essere seriamente sviluppato e con qualche ambizione.